Non sempre una situazione familiare degradata comporta responsabilità penali individuali (Cassazione 6490/2009)
Non rispondono di maltrattamenti in famiglia i genitori che si picchiano davanti ai figli e li fanno vivere in un clima di conflitto e di continue vessazioni reciproche. Lo ha stabilito la Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione annullando la condanna inflitta dalla Corte di Appello di Roma ad un uomo che era stato accusato di maltrattamenti nei confronti della moglie e della figlia.
Il Tribunale di Roma aveva condannato una persona per i reati di maltrattamenti e lesioni volontarie lievi in danno della moglie e della figlia, e la Corte di Appello, in secondo grado, aveva confermato la decisione, riducendo però la misura della pena. I giudici di merito avevano evidenziato, in particolare, che la prova della responsabilità dell’imputato era integrata dalla precisa e puntuale testimonianza della figlia, che aveva riferito in ordine al clima di permanente tensione che aveva caratterizzato la vita familiare, ai continui litigi tra i suoi genitori a causa prevalentemente dell’abuso di alcool da parte di entrambi, al suo coinvolgimento di riflesso in tali litigi, alla protrazione del comportamento violento e vessatorio del padre anche dopo la morte della madre avvenuta nel 2001.
Contro la sentenza di appello il padre ha proposto ricorso in Cassazione, contestando la sussistenza degli elementi del reato di maltrattamenti in famiglia. La Suprema Corte, accogliendo il ricorso ed annullando senza rinvio la sentenza di appello, e dopo aver premesso che la vicenda, “per così come emerge dalla ricostruzione in fatto operata dai Giudici di merito, deve essere apprezzata e valutata nel particolare contesto familiare in cui è maturata, al fine di invidiare realisticamente l’esatto rilievo penale dei comportamenti sicuramente antigiuridici tenuti dall’imputato in danno della moglie e della figlia”, ha sottolineato come il racconto della figlia delinei “un quadro familiare caratterizzato e condizionato da anomalie comportamentali di tutti i suoi componenti, determinate dall’uso smodato e incontrollato che i suoi genitori facevano dell’alcool, nonché delle gravi patologie a livello psichiatrico di cui la madre era portatrice”; non si può pertanto prescindere da tale peculiare situazione per cogliere la reale portata e il vero significato delle tensioni verificatesi in casa e spesso sfociate in litigi verbali, connotati da provocazioni o minacce, oppure in vere e proprie aggressioni fisiche ad iniziativa non solo dell’imputato ma anche della moglie, e, di conseguenza, non si può affermare “che sia stato il padre, con la sua condotta prevaricatrice e violenta, ad imporre un regime di vita vessatorio e intollerabile all’interno del consorzio familiare, essendo egli stesso rimasto vittima di comportamenti lesivi del suo patrimonio morale e della sua integrità fisica ad opera della moglie”: in definitiva, tutte le persone coinvolte nella presente vicenda, devono considerarsi in qualche modo vittime di una situazione familiare difficile per le gravi difficoltà esistenziali vissute dai coniugi e di una incapacità dei medesimi a fronteggiarla efficacemente con la necessaria serenità.
Ciò comporta l’esclusione della “coscienza e volontà”, da parte dell’imputato, di sottoporre i familiari ad una serie di sofferenze fisiche o morali in modo continuativo ed abituale; i singoli atti lesivi devono piuttosto essere intesi come “forme espressive di reazioni determinate da tensioni contingenti, anche se non infrequenti nel descritto contesto familiare”. In buona sostanza, anche se non sono mancati atti lesivi e vessatori, ciò che è mancato è la coscienza e la volontà degli stessi, verificatisi in un contesto familiare degradato, tale da escludere una singola responsabilità penale per il reato di maltrattamenti ma da configurare piuttosto una situazione familiare drammatica con due genitori totalmente incapaci di gestire le difficoltà che comportano una serena vita di coppia ed una corretta educazione dei figli.
CITTADINO LEX